Romano cagnoni nel suo studio a pietrasanta 2015

Altre emergenze: quando guardare è diverso dal vedere

Romano Cagnoni è stato uno dei più grandi reporter italiani ed è ovvio domandarsi come avrebbe ‘fermato’ in foto questa pandemia se fosse stato ancora qui. Patricia Franceschetti, la sua compagna, ha scelto alcune sue storiche foto nelle quali emerge forte la sua lezione (e che esaudiscono il nostro desiderio di rendergli omaggio) ma più che altro evidenziano la sua coscienza di “quanto è diverso riprendere dal guardare fotografie di dolore”. Utile quindi accompagnarle con estratti di un suo scritto che, a più di vent’anni, appaiono come una presa diretta dell’oggi.

Fui uno dei primi corrispondenti a interessarsi del Biafra. Sorvolai il Sahara e atterrai a San Tomé, un isolotto dell'Atlantico da dove partivano i voli notturni del ponte aereo per la terra degli Ibo. Salii su un Super-Constellation della Caritas vecchio di 20 anni con a bordo medicinali. Il comandante mi indicò di sedermi in un angolo del velivolo e aggiunse: "Se Genocidio ci sparerà, metti giù la testa e stringi le ginocchia con le braccia".

L’aereo decollò, a tastoni controllai se avevo dimenticato niente: le macchine fotografiche, le pellicole, la cassetta del pronto soccorso, stecche di sigarette, scatolette di carne conservata, whisky e caffè. Lucas, il pilota inglese, mi sollecitò con un cenno brusco a prendere una cuffia, aggiustai l'attrezzo fino a sentire una voce che insultava in inglese, dicendo infine: "Pilota, so chi sei, qui Genocidio, non avrete scampo". 

Rannicchiato con le gambe strette tra le braccia, le mani bagnate di sudore, il carrello toccò terra, vidi come un bagliore la pista illuminata in mezzo ai palmeti; l'aereo barcollò un poco e poi dolcemente rullò sull'asfalto. Raccolsi velocemente i miei bagagli al lume di una torcia e mi avviai per la dogana: esisteva anche quella nella giungla.

Abitavo in una stanza sporca senza acqua a Owerri, c'era un'epidemia di epatite della quale temevo il contagio;

Recuperai una vecchia motocicletta, con la quale, borsa delle macchine a tracolla, scorrazzavo nel paese ribelle sempre più rimpicciolito.

L'ospedale di Owamamma, gestito da medici francesi che in seguito formarono l’organizzazione "Médecins Sans Frontières", era affollato di pazienti, militari e civili, stesi su lettini di stuoia a volte occupati da due o tre persone;

i feriti provenienti dal fronte venivano operati in una sala senza sistema antisettico. La lampada scialitica, alimentata da un generatore, spenta per carenza di carburante, inutilmente puntata sul nudo corpo di un ferito, sovrastava i chirurghi, i quali a petto nudo indossavano dei grembiali di plastica; curvi sul tavolo operatorio, canticchiando accompagnati da della musica leggera proveniente da un mangianastri tenuto sempre acceso, sembravano delle operose massaie in cucina.

Il dottor Louis Salvador, primario dell'ospedale della Croce Rossa Francese di Owerri, ascoltava della musica malinconica nella sua stanza, un deposito di medicine, cibo in scatola e acqua minerale. Un maialino gironzolava indisturbato: "Ti presento il mio favorito, l'animale più raro nel Biafra" squillò. Dalla finestra mi mostrò una ventina di uomini intenti a scavare un enorme fossato; salì su una scatola di cartone e annunciò: "Sarà il primo bunker costruito in Africa. Farò rivestire e ricoprire il fossato con tronchi d'albero di palma, terra sopra e una mano di calcina sulle pareti renderanno il bunker, la sala operatoria più asettica e sicura dai bombardamenti di tutto il Biafra". Ammaliato da tanto vigore e da tutta l'abbondanza della stanza, balbettai: "Potrò fotografare una operazione in corso?" Discese dalla scala, vi appoggiò un piede e con lo stesso entusiasmo continuò: "La storia tu fotograferai. Il mio bunker diverrà il simbolo dell'Africa moderna....". Il debutto del celebre "Operating theatre", con un vistoso cartello affisso all'ingresso del bunker, avvenne con una festa d'inaugurazione voluta dal dottore, il quale uscì elegantissimo dalla sua stanza-magazzino con varie bottiglie di Champagne. Un soldato zoppo, ex paziente del medico, cominciò a suonare una chitarra, cantando una canzone dedicata al dottore, che ripeteva: "Salvà is all right. Salvà is ok...", un altro soldato, il quale aveva subito una laparotomia pochi giorni prima per delle schegge di granata allo stomaco, con una mano batteva su un tamburello, mentre con l'altra reggeva la bottiglia della fleboclisi.

Ad Uli arrivai alleggerito di qualche chilo e dei tanti bagagli con cui ero arrivato, osservavo alcuni uomini intenti a ricoprire le buche sulla pista causate dalle bombe, una voce disse "Si vola!", un'altra ripeté l'assurda domanda "Niente da dichiarare?".

Nel buio della carlinga vuota dell'aereo ascoltavo i motori spinti a tutta forza per il decollo, immaginavo il palmeto allontanarsi e la pista illuminata scomparire nella notte. La mia mente ritornava a tutte le varie tragiche situazioni che avevo fotografato e agli scampati pericoli. Lo specchio dell'introspezione mi rivelò quanto è diverso riprendere dal guardare fotografie di dolore.
[Tratto da “Romano Cagnoni - Il Mondo a Fuoco” Electa, 2000]

Romano Cagnoni e Patricia Franceschetti, 24 aprile 2020