Convivere con l’uomo nero

Due coincidenze mi portano ad arruolare, postumo, Fabio Garriba nell’avventura di QD, oltre all’amicizia. Il fatto che un suo quadro, che ho sempre sotto gli occhi in questa casalinga prigione, intitolato Disfacimento mentale, ha finito per diventarmi la raffigurazione artistica (e profetica) del famigerato Covid.

L’altra è il forzato slittamento del debutto di uno spettacolo a lui dedicato, che doveva andare in scena lo scorso marzo ed è stato rimandato a dicembre. Si tratta di Dissipatio F.G., una produzione di Are we human di Verona, per la regia di Tommaso Rossi, dal quale proviene il video che qui si presenta, con Carlo Genova che interpreta “L’uomo nero”, una delle poesie di Fabio che assume, adesso, risonanze particolari. Spero sia un’occasione per chi legge di approfondire la conoscenza di questo poeta autentico. Oltre a ringraziare Tommaso Rossi per il permesso di usare il trailer, desidero esprimere la mia gratitudine a Fabrizio Guarducci che di Fabio è stato il primo editore e ad Elisabetta Sgarbi che di lì a poco avrebbe pubblicato Il fastidio delle parole nella collana di poesia de La Nave di Teseo; dalla quale edizione traggo un brano dell’intervista rilasciatami da Gianni Morandi che ricorda l’amico Fabio:

Eccoci a ricordare il nostro amico Fabio Garriba. Innanzitutto quando vi siete conosciuti?

Era il 1972, sul set di La cosa buffa, di Aldo Lado, che si girava tra Mogliano Veneto, altri paesini e Venezia: Fabio giocava in casa, conosceva tutto e tutti, mi folgorò con la sua cultura immensa, ma soprattutto per l’ironia gioconda con la quale spingeva i suoi scherzi fino ai limiti: fu subito complicità.

A Venezia mi portava, oltre che per meravigliosi campielli e sottoporteghi, in chiese incantate e misteriosi palazzi che spiegava da par suo, non dimentichiamoci che era stato a Parigi a studio di un certo Le Corbusier; naturalmente anche per osterie. Fu lui ad avvicinarmi al vino e allo spritz, che allora non era di moda come ora e si chiamava ancora “bianco sporco”; io a quei tempi bevevo aranciate o al massimo Coca Cola. Naturalmente mi incoraggiò anche ad amare l’arte contemporanea: mi fece conoscere Tancredi, Parmeggiani. Andammo da Emilio Vedova, dal quale acquistai un multiplo che è tra i pezzi più belli della mia collezione. Mi parlava dei suoi amici, di Elsa Morante, Pasolini, Moravia; io, che a quei tempi non avevo ancora preso la licenza media (ride –n.d.r) ero travolto. Fabio era un pungolo continuo alla conoscenza, alla curiosità: me lo bevevo letteralmente, assorbendo come una spugna ogni sua parola. Ricordo che sul set venne a trovarlo un allora ancora poco noto Bernardo Bertolucci, timido sulle prime, ma che poi si sciolse in grandi risate. Insomma divenimmo inseparabili.

E una volta finito il film?

Quando era fattibile lo invitavo alle mie serate, a quei tempi non si chiamavano ancora concerti. Fabio si divertiva come un matto. Era impressionato dalle folle urlanti, specie dalle ragazzine, che lui chiamava le “piccole iene”; «Ma come fai? Quelle ti strappano la camicia», mi ripeteva, aggiungendo i suoi apologhi sulla fortuna dell’insuccesso. Ricordo che lo invitai anche in Romania e lui accettò tutto contento. A Bucarest scovammo un locale aperto tutta la notte, di quelli solo per stranieri. Erano tempi cupi, si era oltre cortina e c’era poco da scherzare; Fabio, dopo aver bevuto assai, partì in una delle sue beffarde performance: non violenta ma pericolosa, quanto potevano esserlo le escandescenze poetiche ai tempi di Ceausescu! Con un amico, che lavorava con me e si chiamava Romano, faticammo un bel po’ a placare le acque e ce la vedemmo brutta. Ma anche episodi come questo, pur portandoci quasi al litigio, non hanno mai affievolito il fortissimo sentimento di amicizia che c’era tra noi.

Poi ho scoperto, a poco a poco, i suoi multiformi talenti. Come sai non era uno che amava mettersi in mostra, se non con le sue folli provocazioni. Innanzitutto il Fabio pittore. A casa ho una sua Natura morta, un vaso con zampe di gallina al posto dei fiori, un lavoro che considerava molto importante. Anche il suo mondo pittorico era iperbolico, geniale. Ricordo quando andai a casa sua a Verona: l’aveva disseminata di trompe-l'œil: scale, paraventi, false porte e queste figure…

(…)

Inquietanti?

Sì, è la parola. E poi le poesie, bellissime, che ho letto ancora in bozze.

(…)

E il “rituale” delle telefonate di compleanno?

Come sai siamo entrambi del 1944, lui era nato il 13 novembre e io neanche un mese dopo, l’11 dicembre. Ci siamo telefonati per tutti questi anni, magari non ci sentivamo da quello precedente, sia il 13 che l’11. Ed era sempre come se ci fossimo lasciati un minuto prima: partivamo in un cazzeggio infinito, sparando cavolate a ruota libera, ma anche informandoci delle nostre vite, del nostro inoltrarci nella seniltà. Fabio era sopra le righe anche in questo, si definiva vivibondo, ribaltava i termini rendendo un paradosso anche la morte. Gli chiedevo sempre come si sentisse con ventotto giorni in più sul gobbo. E ora?

 (da “Chiedi chi era Fabio Garriba” intervista a Gianni Morandi di F. Norcini)

L’UOMO NERO

Quando bambino

le giornate erano più grandi

e sogni bellissimi mi riempivano

il letto di notte,

a chiudere fuori l’uomo nero

ci pensava la mamma.

Di tutto questo non è rimasto che un ricordo

al quale riandando

mi sembra bellissimo.

Oggi che l’uomo nero

non c’è nessuno a buttarlo fuori

insonne lo ascolto aggirarsi

a piede libero per la casa.

Di là lo sento aprire gli armadi,

bere un bicchiere d’acqua,

far uso talvolta del gabinetto.

Non proviamo nemmeno curiosità

l’uno dell’altro,

ci basta tenerci compagnia lungo il buio.

Credo mi sia riconoscente

di non essere io cresciuto abbastanza

da ucciderlo o dimenticarlo.

Anzi le sere che non si fa vivo,

paziente lo aspetto

spaventato di essere diventato grande.

Guardando la luce scappar via dalle case

mi lascio scendere nel buio del letto

e già si apre la porta della paura.

Taciuta la mia presenza ho sempre fatto di un’assenza il mio rumore

Fabio Garribba