Covid46

Il nastro

Ci sono momenti in cui tace improvvisamente la strada, le auto, il vento, perfino gli uccelli. Se siete in casa tacciono i rumori dell’edificio: l’acqua che scorre nei tubi dal piano di sopra, lo scricchiolio del legno di là in camera o nel salotto, una tv lontana, due voci che litigano da qualche parte, perdute tra i palazzi e oltre le terrazze. Se ci pensate, quasi mai si sente davvero il silenzio. Questo perché la vita è tutta una grande musica che viaggia su accordi sconosciuti.

È un evento rarissimo ma almeno una volta si vive l’istante in cui la voce del mondo si spegne e si percepisce lui, il “nastro”. È un’entità spaventosa che appare quando l’esistenza rallenta, quando il tempo cambia velocità per un qualche calcolo cosmico a noi inaccessibile, quando un fatto o una condizione mutano direzione o perdono l’incastro che li rende ingranaggi del grande accadimento meccanico che è l’Universo. Ecco, in questi momenti sentite lui: è un fruscio silenzioso e perenne, è ciò su cui viene incisa la nostra vita e tutto il nostro fare. Non so chi ha premuto rec, né cosa ci faccia di preciso. Ma esiste davvero, non è dentro le orecchie, è reale. È appunto spaventoso, perché sentirlo scorrere è intuire la potenza della nostra volontà, la libertà delle nostre scelte, il nostro noi in lotta col destino e con ciò che inizia oltre il confine che ci hanno dato, la nostra pelle. Sentirlo è percepire tutto in una volta la nostra presenza viva, con il suo dolore, la sua forza cieca, la sua catena variopinta di sentimenti provati o possibili.

Una forza benevola in genere ci impedisce di sentirlo, il nastro. Ma a volte no. Io l’ho sentito un paio di volte nella vita e ho conosciuto altri che lo hanno sentito. Sono tutte persone normali, gente che guida la macchina, alle superiori non era brava in matematica, magari da finta di odiare il Festival di Sanremo ma poi guarda di nascosto la finale.

La seconda volta per me è stata in questi giorni di quarantena.

Ero nel piazzale di un supermercato di periferia, in una città che amo perché è la mia, il Venerdì Santo, alle 17 e trenta in punto.

Io sono il numero 41: una guardia giurata enfatizza l’alto compito di garante delle regole urlando il numero di turno. Si entra quasi uno alla volta e con una media di 15 minuti di attesa. “18!” ... “Si prepari il 19!”

Uomini sulla cinquantina in tuta, ragazzi con la barbetta lunga con ancora indosso la maglia dell’azienda in cui lavorano, di quelle non interessate dalla chiusura imposta dai decreti per il contenimento del virus. Signore bionde con la ricrescita. Qualcuno ha un aspetto trasandato: dal divano alla coda, direttamente qui. Tutti ligi, tutti immobili e responsabili. Braccia incrociate e mascherine che dopo un po’ sotto il caldo ti fanno soffocare. C’è una maestra di asilo che parla con un’amica e la sua voce e le storie che racconta entrano nelle orecchie di tutti ma fanno compagnia: ”A settembre mica rientreremo, chi li distanzia i ragazzi? Si potranno fare i tamponi? Io non lo so…” E poi giù, qualche pettegolezzo. Arriva un’auto con una ragazza incinta, scende col marito. Ha la coda castana alta ed è delicata come lo sono certe ragazze belle che aspettano il loro primo bambino. Due ragazzi si riconoscono e fanno amicizia: “Si, ci siamo visti, sei l’amico di Federico. Come va? Lavorate voi?”

“19!” Siamo tutti sparsi nel parcheggio, a debita distanza, col nostro bigliettino staccato all’ingresso, dove la direzione ha piazzato guanti e liquido disinfettante. Ogni tanto qualcuno va a disinfettarsi con fiero senso del dovere e poi torna al suo posto. Il sole picchia in testa e sulle maglie pesanti con cui la primavera ci ha sorpreso. Un anno fa saremmo stati già in maglietta: stavolta sembra che l’inverno sia andato via e ci abbia lasciati soli. Quando qualcuno esce incrociandosi con quello che ha il turno, lo guardiamo tutti con preoccupazione o anche invidia: “Ahhh…quanto ci ha messo, ha finito, adesso va a casa. Ecco, ha preso l’uovo di Pasqua. Anch’io, certo. Tre. Il suo per chi sarà? Faranno un pranzo domenica? Con chi abita? Sarà ammalato?”

Una signora anziana magrissima sbuca dalle auto parcheggiate e va a mettere a posto il carrello. Un lungo foulard rosso le scende sui pantaloni. Attraversa da sola la scena nel silenzio greve. Qualcuno la osserva. Poi, finito di spiarci da sopra la mascherina e immaginare il romanzo l’uno dell’altro, rimane solo il caldo, lo stare in piedi per forza, le poche macchine che transitano sulla strada davanti al parcheggio dell’ingresso. Si alza un filo di vento.

All’improvviso, il “nastro”. La strada ha taciuto. Gli uccelli, il vento. Nessuna campana, nessuna voce. Città spenta. Tempo sospeso. La guardia giurata sparita chissà dove. Non so chi e quanti si siano accorti del fruscio. Mi sono guardata intorno. Tutti immobili. Molti continuavano a palleggiare lo sguardo dall’asfalto all’ingresso del supermercato. Altri a guardare il carrello e le mascherine degli altri. Il nastro, eccolo. Preciso e implacabile dietro il silenzio. Ho sentito il peso, e la malinconia incerta, di quel che forse non esisterà più: un mondo con le sue nuove regole che è già qui ma che vivremo come ieri, perché non abbiamo capito e non avremo imparato nulla.

Mi è venuto da piangere. Venerdì Santo, sconosciuti stanchi desiderosi di infilarsi al supermercato, un nemico invisibile e appiccicoso in giro che ti corrompe il corpo e uccide quel che sembrava immutabile. Io però non voglio incidere lacrime inutili e umidità sul nastro... Mi sono sentita viva, pronta all’azione. Capace di sollevare dalla forza di gravità dell’esistenza tutta la gente lì in quel parcheggio. Compresa la guardia giurata. È terribile e bellissimo avere la libertà di incidere su quel robo maldetto.

La signora anziana ora era vicina e senza più carrello. Oltre la mascherina blu enorme per quel piccolo viso, mi sorrideva. Lei lo ha sentito il nastro, ne sono certa. Lui scorre sempre alla stessa velocità oltre i rumori, le voci, i fatti, le uova di Pasqua e il Natale che fa sentire soli, i foulard rossi e i drappi viola, il chiacchiericcio, le passioni e le debolezze, le pandemie. Chissà chi ci riascolterà un giorno, chissà dove.

Sara Lucaroni, Arezzo 15 aprile 2020