Nicola verlato judith

Il vuoto al centro

La sensazione della fine di un'epoca l'ho avvertita per la prima volta durante la crisi del 2008 mentre vivevo a New York, oggi mi sembra di essere di fronte ad una resa dei conti relativa a processi che si sono innescati proprio allora.

Nel 2008 tutti i motivi per i quali mi ero spostato 4 anni prima da Milano nella metropoli Americana mi sembravano svaniti d'improvviso: le gallerie chiudevano, le openings andavano deserte e quelle poche che aprivano erano dedicate agli artisti Blue chips, ai nomi grossi che, nell'arte intesa come mercato, rappresentano gli "investimenti" sicuri.

Poco prima della crisi c'era stato inoltre un improvviso mutamento di gusto generale: da uno strano reinteresse per l'arte figurativa e anche per la craftmanship dei primi anni 2000 si era tornati all'improvviso nell'ortodossia dell'arte concettuale e delle installazioni fatte di spazzatura.

In un certo senso vedere tutto l'ansiogeno castello di carte del sistema dell'arte crollare all'improvviso rappresentò una specie di liberazione dall'idea che ci fosse solamente una modalità per praticare l'arte nel nostro tempo.

Fu allora infatti che cominciai a dedicarmi allo sviluppo di progetti utopici e monumentali, architettonici, pittorici e scultorei da collocare in luoghi specifici caratterizzati dall'essere stati teatro di eventi storici. Erano progetti, sui quali continuo a lavorare, rivolti a figure centrali del nostro tempo come Robert Johnson o Pasolini, che a mio giudizio non avevano ancora trovato una rappresentazione in termini di arti plastiche degne della loro importanza.

Proprio in questi giorni si legge che un importante curatore del calibro di Hans Ulrich Olbrist ritenga che per superare la crisi in corso del mondo dell'arte si debba ricorrere ad uno strumento di finanziamento pubblico modellato sul modello del WPA di roosveltiana memoria per produrre progetti, per l'appunto, di tipo monumentale.

Il WPA!

Sentirsi dire che il proprio lavoro poteva essere assimilato all'estetica del WPA era considerato un insulto dei peggiori nella New York degli anni 10.

L'arte fatta per i luoghi e per il popolo era, ed è ancora, vista dai più come una aberrazione.

L'arte, infatti, secondo l'estetica egemone (di stampo anglosassone), deve essere prima di tutto "Idiosincratica", riflettere cioè le nevrosi dell'artista e porsi, prima di tutto, in termini di espressione della propria soggettività.

L'arte deve essere socialmente inservibile onde evitare strumentalizzazioni di sorta, oltre al fatto di dover essere assoggettata allo scambio commerciale continuo per poter generare valore economico, unico valore misurabile, dato che era, come è ancora adesso, chiaro a tutti che non è possibile attribuirle alcun valore intrinseco.

Ancora oggi siamo nella stessa barca, l'arte che va di moda è sempre prima di tutto idiosincratica, storta, liquida e, se ci va alla grande, "dialettale", ma soprattutto inservibile in termini sociali.

Ma, se il mercato manovrato dello scambio infinito delle opere intese come merce il cui valore si fonda sul prezzo, dovesse fermarsi per un tempo sufficiente, altre modalità subentrerebbero a fornire all'arte obbiettivi diversi dalle espressioni puramente soggettive e nevrotiche.

Sarei molto felice che questa situazione, alla quale cercherei di non attribuire nessun significato se non quello di essere una enorme disgrazia, ci mettesse però di fronte alle crepe profonde che si sono generate nel nostro mondo attorno alle quali, nel mentre si allargano e si vanno facendo sempre più profonde, si continua stoltamente a girare a vuoto come degli idioti senza speranza, perché forse, e pochi se ne sono accorti, era proprio il vuoto che era stato messo al centro di tutto.

Nicola Verlato, Roma 10 aprile 2020