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Richiamato in servizio

Adesso ve lo faccio vedere io come si fa la guerra vera, così non ve lo scorderete per un bel po’, disse Dio alzandosi dal letto, frastornato da quegli scoppi, esplosioni, colpi che gli toglievano il sonno. Sempre più deluso dall’impossibilità di aggiustare la sua invenzione e anche di distruggerla in un sol colpo, irritato dalle preghiere che arrivavano dal piano di sotto e gli impedivano di dormire; si era ricordato di una scatolina che gli aveva regalato tanto tempo prima un collega di un’altra galassia, che gliene aveva consigliato l’uso il giorno in cui non ce l’avesse più fatta a sopportare la baracca incautamente messa in piedi. È da sciogliere nell’acqua? gli aveva chiesto Dio. Sorridendo della sua ingenuità, il collega gli aveva illustrato la posologia del portentoso ritrovato.

Ecco, pensò Dio, è venuto il momento di usarlo: ora o mai più. Aprì un cassetto della scrivania alla quale non sedeva più da quando era in pensione e di cui quelli di sotto non s’erano accorti. A mandare avanti l’azienda di famiglia c’erano suo Figlio, la Madonna e una folta schiera di santi che si andava ingrossando con il passare degli anni. Il ricorso all’informatica non aveva infatti ridimensionato la forza lavoro. L’avvento di papi keynesiani favorevoli alla piena occupazione aveva aumentato il numero dei dipendenti anziché ridurlo. I trascorsi sessantottini del Figlio, adesso che era lui a comandare, avevano lasciato il segno.

Sperava dunque che quella scatolina, di cui il resto della Sacra Famiglia ignorava l’esistenza, potesse sistemare le cose laggiù. Chissà, forse era l’arma risolutiva. La tirò fuori da un cassetto della scrivania, andò alla finestra, l’aprì, scoperchiò la scatolina intarsiata che gli parve conservasse un tenue profumo di legno di sandalo, e la rovesciò scuotendola energicamente affinché il contenuto si disperdesse nella rarefatta atmosfera siderale. Non ne uscì nulla. «Maledetto imbroglione», borbottò Dio biascicando sottovoce imprecazioni in una lingua esogalattica. Richiusa la finestra, gettò la scatolina nel contenitore dei rifiuti indefinibili e andò in cucina a farsi un caffè. Da quando era pensionato doveva fare tutto da solo, neanche un cherubino o un serafino che l’aiutasse. Il caffè non era ancora risalito del tutto dal colonnino della moka Bialetti di fabbricazione cinese che le sue orecchie percepirono qualcosa di diverso dal solito nei rumori provenienti dal basso. Gli scoppi e le esplosioni non si erano attenuati, ma negli interstizi delle cannonate e dei bombardamenti, tra le urla della macelleria, sentì i fruscii di una brezza leggera. I brividi della paura globale. Laggiù qualcuno stava morendo in modo diverso dal solito. Non solo per fame, bombe e proiettili. Erano avvisaglie di una guerra che da sordida si stava trasformando in sorda e muta. Il nemico invisibile che attaccava a tradimento non era più del vecchio tipo. Non metteva nazioni contro altre nazioni, popoli contro altri popoli, liberatori contro invasori, partigiani di un colore contro faziosi di un’altra sponda. No, stavolta la guerra era tra concittadini e tra vicini di casa troppo vicini, tra amici, tra fratelli, tra figli e genitori. Tra persone che si volevano bene o dicevano di volersene. Tra chi curava e chi riceveva le cure. Una guerra chiamata flagello di Dio.

La chiamino come vogliono, per quel che me ne importa, sbottò Dio. Da quando era in pensione, non era più affar suo intercettare le invocazioni provenienti dal basso e decidere quali esaudire. Prese il giornale, si accomodò in poltrona, s’infilò gli auricolari, accese un vecchio modello di mp3 per godersi i canti gregoriani, gli unici che avessero il potere di rilassarlo, e aprì il giornale. Non era ancora arrivato alle pagine dello sport, le sue preferite, che si accorse che qualcosa non andava. Lo sport stava tutto in una sola pagina, dove c’era scritto che tutti i campionati del mondo erano sospesi. Strabuzzò gli occhi, voltò pagina. Morti. Ne girò un’altra, ancora morti. La terza, sempre e solo morti. Che cosa stava succedendo? Sfogliò il resto del giornale. Cinquantaquattro pagine di necrologi. Si strappò gli auricolari dalle orecchie. Da sotto arrivava un brusio che per decibel superava quello di uno sciame di un miliardo di api. Si drizzò in piedi, sbuffando e imprecando, raggiunse l’anticamera, con gesto da stizzito staccò dall’attaccapanni e s’infilò il giubbotto con i catarifrangenti che lo rendeva invisibile e onnipotente. Lo stavano richiamando in servizio a furia di preghiere. Ci mancava solo che si fossero uniti i vescovi ai devoti e basta. Si facevano raccomandare. Mentre scendeva con l’ascensore riservato rimpianse i tempi della sua gioventù, quelli dell’Antico Testamento, quando si occupava di un popolo di modeste dimensioni, dei gran rompiballe pieni di pretese e mai a corto di reclami, però a loro modo affezionati. Poi c’era stata quell’avventura del Nuovo Testamento, una mattana di suo figlio, che in duemila anni gliene aveva fatte vedere di tutti i colori. E ora neanche la pensione, poteva godersi.

Doveva fare qualcosa, si era detto. E ora che lo aveva fatto doveva dare ragione ai veneti, i suoi prediletti perché, nel loro piccolo, gli ricordavano il popolo eletto della sua gioventù: xe pèso el tacòn del buso, peggio la pezza del buco. Quanto al collega che gli aveva passato la scatolina, gliele avrebbe cantate forti e chiare non appena avesse sbrigato quella sporca faccenda. All’improvviso gli venne in mente che quel collega, forse invidioso del suo miliardo di followers, avesse voluto fregarlo. Doveva tornare indietro a prendersi la mascherina. Cercò di fermare l’ascensore. Niente da fare. Era programmato solo per scendere. Non si sarebbe fermato prima del piano Terra. Cominciò a battere furiosamente i pugni contro le porte. Pigiò il pulsante dell’allarme. Niente da fare. Tutto inutile.

Il mattino del 24 marzo 2020, due addetti alla pulizia dell’androne della stazione centrale di Milano trovarono un uomo dalla barba bianca e dall’espressione sconvolta rattrappito su una delle panche di granito dove dormono di solito i senzatetto. È morto? Chiese uno dei due all’altro, che si era avvicinato al vecchio.

- Sembra che dorma.

- Allontanati, sta morendo, può essere contagioso.

Se Dio muore è per tre giorni, poi risorge. Se Dio dorme, poi si risveglia? Neppure Francesco Guccini, che Dio ce lo conservi, lo sa. Dio solo lo sa.

Ivano Sartori, Parma 24 marzo 2020