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Riconquistare abbracci e prossimità negate

La pandemia ha minato la cultura degli abbracci ed il sistema della prossimità, propri di tutto il mondo del volontariato. Per il terzo settore e per me - che opero da vent’anni per l’associazione Gli amici di Luca, in una struttura pubblica dell’Azienda Usl di Bologna, la Casa dei Risvegli dedicata a mio figlio Luca - è stato un momento molto difficile. Noi abbiamo quotidianamente a che fare con la mancanza di coscienza, con la riabilitazione e con la speranza. Attenti a cercare e percepire segnali di risveglio, abbiamo sempre le mani in pasta, perché abbiamo bisogno e necessità di toccare. Usiamo il teatro proprio per questo, per restituire alle persone con disabilità quel contatto che altrimenti sarebbe loro negato e, assieme alle famiglie che li accudiscono si alimenta quella relazione che diventa nuova linfa sociale, nuove caselle per ruoli da assegnare nel tessuto sociale.

Il virus ha staccato tutto questo. Ha spento le luci, interrotto le connessioni, ma non ha sopito il nostro modo di fare, le nostre passioni. Non ha spento il nostro modello che è quello di rispettare, nonostante il periodo di malattia, la casa, i tempi della famiglia, rispettando la loro competenza nel percorso di cura. Il lockdown ci ha costretto, ma ci ha indotto a pensare. A ripartire da quella coscienza interrotta, tipica delle persone in coma, e ci ha spinto a ricreare nuove relazioni. Lo abbiamo fatto, anche noi utilizzando il web, i social, le nuove tecnologie appannaggio, fino ad ora, prevalentemente dei nostri figli. Ci siamo concentrati, per quanto possibile alfabetizzati, e abbiamo sopperito al momento contingente. Ma abbiamo fatto di più. Ci siamo messi in ascolto. Nel nostro silenzio, nella mancanza di comunicazione con gli altri, nella loro fisicità sottratta al nostro sguardo, ancora una volta io ho ritrovato mio figlio Luca. Non il ragazzo vivace, intelligente e ironico che conoscevo. Ma quello durante il coma, in rianimazione. Ho ritrovato le giornate intensamente scandite da un vuoto incessantemente da riempire con parole, azioni, suoni, stimoli atti a risvegliare la coscienza. La necessità di accedere a nuove strategie. Sono stato rinchiuso, per ritornare, rannicchiato in fondo allo scafo aspettando la quiete del mare in tempesta. Un rinchiudersi, in una attiva intimità, per risparmiare energie, per ricaricarsi e per affrontare il nuovo futuro. Che prima o poi arriva all’orizzonte e che, comunque, va sempre riprogrammato.

Fulvio De Nigris, Bologna 28 maggio 2020